19 luglio 2009

Felicità - istruzioni per l'uso - (parte 3^)


Post in cui si spiega cosa fare o non fare per conseguire la felicità..

Continuo quindi l’analisi già fatta nei due precedenti post, entrando nel vivo della questione...






(come nel precedente post, molti spunti dell’analisi, alcuni ripresi testualmente e riportati in corsivo, li ho tratti da – Piccolo manuale di Apologetica 2 – ed. Piemme, dall’interessantissimo e illuminante capitolo ‘Il cristiano è un represso?’ di Samek Lodovici)

Fare tutto per e con amore, cercare la felicità degli altri e non la propria
Tutto ciò che si fa con amore risulta poco gravoso, e dà tanta più gioia quanto maggiore è l’amore. Addirittura si può anche accettare il dolore fisico offrendolo a Dio perché ne ricavi un bene e così provare gioia, come succede a persone di grande fede.
Questa connessione tra amore e felicità determina il paradosso della felicità: la felicità la consegue (nella misura in cui essa è accessibile) solo chi non la cerca per se stesso, bensì chi (consapevolmente o meno) la cerca per gli altri. Si trova conferma di ciò in diversi studiosi quali Bentham, Mill e Sidgwick (autori di quella corrente morale che è l’utilitarismo) che sono anche insospettabili perché hanno ritenuto (erroneamente) che l’uomo agisca motivato solo dal proprio egoismo. Bentham dice che “per ogni granello di gioia che seminerai nel petto di un altro, tu troverai un raccolto nel tuo petto”. Mill nota proprio l’aspetto paradossale della felicità: “per quanto questa affermazione possa sembrare paradossale, la capacità cosciente di rinunciare alla propria felicità è la via migliore per il raggiungimento di tale felicità”. E Sidgwick parla precisamente di un “paradosso fondamentale dell’edonismo” (che è una forma di egoismo), consistente nel fatto che “l’impulso al piacere, se troppo predominante, viene a vanificare il suo stesso fine”. “i nostri godimenti non possono essere conseguiti se il nostro scopo viene consapevolmente concentrato su di essi”: i piaceri della benevolenza “sembrano richiedere, perché li si provi in misura accettabile, la preesistenza di un desiderio di fare il bene degli altri per se stesso, e non perché così facendo ne deriva il nostro”. Perciò, come principale ostacolo per il loro conseguimento, Sidwick esplicitamente indica l’egoismo: “l’egoismo, quell’eccessiva concentrazione dell’attenzione sulla propria felicità personale, tende a privare tutte le gioie della loro intensità e del loro aroma, e a produrre una rapida sazietà e la noia”. Buona parte della tradizione classica di filosofia morale insegna proprio che la felicità è la conseguenza e l’effetto di una prassi che non se la pone come obiettivo, ovvero è il corollario di una vita virtuosa, una sua risonanza.
Perciò la chiave della felicità sta qui: soltanto l’amore autentico consegue la felicità accessibile all’uomo, mentre la ricerca della propria felicità la preclude. La felicità la si consegue solo con l’amore di benevolenza (
e di carità), il quale per definizione non cerca la propria felicità, quanto, piuttosto, la felicità altrui. Così la felicità è la gioia della felicità dell’altro, come dice efficacemente Leibnitz, o (nel caso in cui l’altro non sia felice) gioia nel cercare la felicità dell’altro. E Kierkegaard impiega l’immagine: “la porta della felicità si apre verso l’esterno”, cioè amando gli altri. E in San Bernardo: “Ogni vero amore è senza calcolo e, ciononostante, ha ugualmente la sua ricompensa; esso addirittura può ricevere la sua ricompensa solo se è senza calcolo”; in Hutcheson: ”Quando agiamo generosamente sperimentiamo la gioia di vedere gli altri felici”; in Genovesi: “E’ legge universale che non si può fare la nostra felicità senza far quella degli altri”; in Adam Smith: “nella natura dell’uomo ci sono chiaramente alcuni principi… che gli rendono necessaria l’altrui felicità”

La felicità non è data dal conseguimento dei piaceri sensibili
Certo l’uomo può creare direttamente le azioni e i mezzi che possono produrre dei piaceri sensibili, quali ad esempio quelli che soddisfano i sensi, e anche quelli che danno un certo godimento interiore tramite l’arte, la musica, la scrittura ad esempio, ma non al livello di quelli più (…) spirituali, come la felicità intesa nel suo senso psicologico di gioia.
Assecondando il nostro egoismo possiamo, nell’immediato, cogliere dei piaceri perché diamo soddisfazione a una tendenza della natura sensibile dell’uomo (…) ma questo genere di soddisfazione è deludente, non è ciò che possiamo chiamare felicità.
Nella nostra società nonostante il benessere sia avanzato infatti ci sono molti segnali di ‘insoddisfazione’. Ciò significa che la felicità più profonda è qualcosa di diverso dalla soddisfazione sensibile e dal benessere: L’esperienza umana attesta un fatto: anche la soddisfazione sensibile è condannata alla diminuzione progressiva e all’affievolimento. A lungo andare, una prassi egoistica ed edonistica focalizzata sul conseguimento di piaceri sensibili provoca una diminuzione dello stesso piacere: tale prassi produce una soddisfazione sempre minore e un desiderio sempre crescente che possono degenerare nella frustrazione e nella patologia. Come dice Scheler, “è proprio questo il lato comico e strano dell’uomo che vive secondo i principi della filosofia edonistica, che egli tanto più non ottiene il piacere quanto più energicamente ricerca quello stesso piacere”.

Paradossi come quello che riguardano la felicità ce ne sono altri nell’esistenza umana: ad esempio se ci sforziamo di prender sonno in realtà lo ostacoliamo, o se ci sforziamo di dimenticare qualcosa in realtà rinforziamo il ricordo. Oppure se un timido si sforza di essere spontaneo sarà ancora più impacciato...
(continua leggendo la 4^ e ultima parte ) oppure (torna alla pagina iniziale)
La felicità la si consegue indirettamenteE la psicologia contemporanea conferma. “la felicità è conseguenza di un’attività vitale non direttamente polarizzata verso di essa con desiderio e ricerca intenzionali… Il clinico può osservare giorno dopo giorno… che il principio del piacere è in realtà autodistruttivo. In altre parole, la ricerca diretta della felicità è autodistruttiva: è una contraddizione in sé,… proprio nella misura in cui l’individuo comincia a cercare direttamente la felicità, o a sforzarsi di conseguirla, in quella stessa misura non può raggiungerla. Quanto più si sforza di guadagnarla, tanto meno la consegue” (J. Cardona Pescador - La depression, psicopatologia de la alegria - Ed. Cientifico-Medica 1983).
E Frankl : “Il piacere non si lascia affatto ‘intendere’, cioè ricercare per se stesso: non può essere ottenuto che quale effetto spontaneo, appunto senza essere ricercato. Al contrario, più l’uomo ricerca il piacere, più questo gli sfugge. Il principio del piacere, portato alle sue più estreme conseguenze, non può che fallire miseramente, e questo per il semplice fatto che da se stesso si ostacola. Quanto più cerchiamo di raggiungere qualcosa con tutte le forze, tanto più è difficile ottenerla” e ancora “Nella misura in cui il piacere viene a essere il contenuto della propria intenzionalità, l’oggetto specifico della propria riflessione, svanisce la ragione per essere felice e si dilegua lo stesso piacere” (Viktor E. Frankl – Teoria e terapia della neurosi – Ed. Morcelliana).

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